Amico lettore, ne ho parlato altre volte, sorridendo. Lievemente, però. Non vogliono essere chiamati vecchi, tantomeno vecchietti.
Per una notizia di cronaca che parlava di “vecchietti in coda ad uno sportello delle pensioni”, sono arrivate al giornale decine di lettere irose, aspre, risentite. Dicevano: «basta con i vecchietti, con questa definizione offensiva che richiama una povera e malinconica immagine di donnetta o ometto curvo, sdentato, rugoso, magari un po’ scimunito e svanito».
Una persona avanti negli anni è ancora efficiente, piena di desideri, di umori, di programmi e vivrebbe felice se i giornali finissero una buona volta di sbattere in faccia questa odiosa e discriminante espressione.
E poi, perché ci chiamano nonni? Se lo siamo, dicevano queste lettere, è per i nostri nipoti, mica siamo nonni dei cronisti.
E ancora: da giovani abbiamo fatto un lavoro detestabile? Ora che siamo in pensione siamo finalmente liberi, quindi viviamo la giovinezza in ritardo: alcuni di noi frequentano l’università e si stanno per laureare, altri scalano montagne o affrontano l’infuocato Sahara in bicicletta, una vecchietta novantatreenne si è buttata con il paracadute dall’aereo per il suo compleanno, un arzillo vecchietto ha girato mezzo mondo a piedi…È vecchiaia tutto questo?
Da tempo la rivolta è dilagata e si è formato un fronte di… coloro che hanno tante primavere (va bene così?): ci si telefona, ci si scrive, si sta in guardia.
Appena si scova un titolo, una didascalia, una notizia con il vocabolo “vecchio”, alè, parte una raffica di indignate proteste. Tra queste la proposta legislativa di abolire l’età sui documenti (basta la dizione minorenne, maggiorenne) o di non considerare più reato la falsificazione della data di nascita.
Così la vita diventa una perenne giovinezza, anche se i capelli se ne vanno, i denti dondolano, le ossa scricchiolano, la schiena s’incurva, la mente si intorpidisce e i lunghi passi dei vent’anni lasciano il posto a titubanti passetti di pochi
centimetri. Importante è non essere chiamati vecchi.
Com’è giovane, si dice, di un amico colpito da infarto a sessant’anni. Era ancora un bambino, commenta qualche altro alla notizia che uno se n’è andato a cinquant’anni. Uno che conosco, un po’ anziano, ma solo un po’ (ha 87 anni) scendendo dalla moto mi ha detto: sono un po’ preoccupato, mi aspetta una brutta vecchiaia.
Un tempo per un uomo era un trauma la prima volta che in autobus un giovane gli cedeva il posto: adesso non si alzano ne- anche se una donna incinta al nono mese gli sviene addosso!
Eppure i vecchi della mia giovinezza si lasciavano quietamente chiamare vecchi. Forse perché non andavano in palestra, non si sottoponevano alle plastiche, non facevano il quarzo e non sapevano neanche cos’era la pappa reale o le altre diavolerie proposte dalla pubblicità televisiva e promettenti miracolosi recuperi di vitalità e giovinezza.
Il vecchietto infatti, proposto dalla tivù ha denti bianchi e saldi, mascelle decise, muscoli d’acciaio, solleva in alto i pargoletti, gioca a tennis, nuota, fa canoa, sorride a gengive larghe sulla nave da crociera, seducente e inesorabilmente attivo.
Lontani gli anni quando il linguaggio diceva pane al pane vecchi ai vecchi. Oggi anche il ricovero è stato ingentilito in casa di riposo per non evocare decadenze decrepite e stanzoni abitati da vecchiaie tristi e abbandonate.
Chiamiamoli, dunque, se proprio vogliamo riferirci a loro, non più giovani, attempati, biancochiomati, della terza età. E la quarta età di chi sarà?
Di ultracentenari ancora più rabbiosamente abbarbicati a creme miracolose e furibondi contro chi li chiamerà vecchi?
P.S. Fra qualche giorno compirò 75 anni (nel 2016 ndr) e non sono permaloso, ma guai se qualcuno mi definirà vecchio. A mia nipote Elisabetta, che solitamente mi chiama nonnino, ho comandato di chiamarmi (soprattutto in pubblico) Dan. Anzi con pronuncia inglese: Den. È così dolce, amico lettore, farsi chiamare Den. Non senti più gli anni addosso anche quando al mattino per infilarti una calza ci vuole un quarto d’ora di umilianti tentativi.
[Dante Clementi]
Questo racconto è stato pubblicato su Il Nuovo Giornale il 18 febbraio 2016, ma sembra scritto ieri.