Potrebbe esserci la Borsa nel futuro della Irbm, l’azienda italiana che sta sviluppando il vaccino anti-Covid insieme all’istituto Jenner dell’Università di Oxford e all’azienda farmaceutica britannica AstraZeneca: «Perché no?», dice a Riccardo Amati de Il Riformista Economia in questa intervista l’amministratore delegato Piero Di Lorenzo.

«Stanno arrivando tante proposte di partnership, ci sono grandi aziende che vorrebbero entrare nel capitale. In molti si interessano a noi in tutto il mondo e non escludo alcuna opzione». Ma se ne parlerà solo a vaccino approvato: «Al momento non ho proprio tempo per pensarci».
I 250 dipendenti dell’azienda, quasi tutti scienziati, da sei mesi non hanno orari, sabato e domenica compresi. L’ad non è da meno. La posta in gioco è di portata epocale.

Quindi, la vostra attuale visibilità vi apre diverse opportunità finanziarie, anche se le scelte sono rinviate…
«Le posso dire solo che si interessa a noi un sacco di gente, da tutto il mondo».

Intanto ci sono cose più importanti da fare. Avete confermato quanto già detto nelle scorse settimane dai vertici di AstraZeneca: se non ci saranno criticità il vaccino sarà pronto entro la fine di novembre, quando l’Italia potrebbe già averne a disposizione tra i due e i tre milioni di dosi. Le produrrete direttamente voi?
«Siamo un centro di ricerca: la nostra vocazione è di metterlo a punto, il vaccino. Ma abbiamo già prodotto decine di migliaia di dosi per la sperimentazione e siamo in grado di produrne dieci milioni l’anno, nel nostro stabilimento di Pomezia. Ho promesso al presidente di AstraZeneca e al ministro della Salute Roberto Speranza che lo faremo, se servirà».

Avete già un contratto con AstraZeneca per la produzione?
«Non ancora. Ritengo probabile che lo avremo in futuro. Intanto, con il gruppo britannico abbiamo un contratto per il controllo con test specifici di tutte le produzioni dei diversi laboratori internazionali che partecipano a questo progetto. Si tratta di assicurare che il vaccino sia identico ovunque: non deve fare alcuna differenza se una persona si vaccina a Hong Kong, in Brasile o a Roma».

Dopo un brevissimo stop dovuto a una sospetta reazione avversa da parte di uno dei 50mila volontari della sperimentazione, la corsa è immediatamente ripresa. Un po’ troppo in fretta?
«La mancanza di correlazione tra la patologia di quel volontario e il vaccino era talmente evidente che la commissione scientifica indipendente ha potuto riscontrarla in 24 ore. Bisogna considerare che in questa fase tre della sperimentazione è coinvolto un campione statisticamente rappresentativo della popolazione e ci sono quindi volontari con malattie pregresse anche severe. Per capirsi: nel caso in questione la mancanza di una correlazione era tanto evidente quanto lo sarebbe stata se il volontario, dopo aver ricevuto il vaccino, si fosse rotto un ginocchio cadendo per le scale».

Ma non è che per ridurre i tempi si smussano gli angoli?
«Vengono tagliati i tempi tecnici, mai quelli della sperimentazione scientifica. La situazione è straordinaria. In momenti normali, servirebbe un anno solo per mettere insieme i volontari: fu così, quando l’azienda sviluppò il vaccino anti-Ebola. Per il Covid-19, i volontari li abbiamo trovati in tre ore. Inoltre, la trasmissione dei dati ai regulator oggi è immediata e i tempi di attesa per le approvazioni son stati praticamente annullati».

E che succede col vaccino se poi il virus muta? Una persona di Hong Kong si è infettata due volte e, nel secondo caso, il patogeno aveva una ventina di caratteristiche diverse rispetto al primo.
«Quanto avvenuto Hong Kong viene debitamente indagato. Ma deve tener conto che qui si parla di macro-numeri: 30 milioni di casi ufficiali nel mondo. Io credo che possano essere oltre 100 milioni quelli reali. Un unico caso a Hong Kong molto difficilmente potrà risultare rilevante».

Ma quanto durerà l’immunità assicurata dal vostro vaccino?
«Per quanto ci riguarda, evitiamo di dare numeri a caso. Il fatto è che in questo momento non lo sappiamo. Potrebbe essere due anni, o tre. Oppure dieci mesi. Potrebbe risultare la necessità di un richiamo dopo un anno, come per il vaccino anti-influenzale. Anche se mutazioni simili a quelle tipiche del virus influenzale ci sembrano improbabili».

Il vaccino per l’influenza, oltre a essere utile per evitare ingorghi ai pronto soccorso, potrebbe anche agire contro il coronavirus?
«Certamente aiuta perché è un additivo che tutela l’organismo e crea i presupposti per produrne l’immunizzazione. E poi è utile a prescindere: l’influenza può creare danni seri, non è una passeggiata, soprattuto per i soggetti più fragili o per gli anziani. Io lo renderei obbligatorio. E guardi che non produco vaccini anti-influenzali né ho alcun interesse in merito».

C’è chi teme che anziché proteggere dal Covid-19 il vaccino possa paradossalmente rafforzarne la dannosità. Che risponde?
«Che lo escludo nella maniera più categorica. Perché lo hanno escluso i moltissimi esperimenti fatti a questo proposito».

Ma possono esserci effetti indesiderati anche gravi? Sulle donne in stato di gravidanza, per esempio. O su chi ha un sistema immunitario debole.
«È proprio per studiare ed eliminare questa eventualità che si sono utilizzati molti più volontari del solito, per il candidato vaccino anti-Covid. In particolare, la fase tre attualmente in atto è un esperimento su grandi numeri e tra i volontari ci sono anche persone con fragilità come malati di tumore, infartuati e donne in gravidanza. Proprio per verificare che non ci siano controindicazioni per alcuni di loro. Ad oggi non se n’è trovata alcuna. Detto ciò, il vaccino è un farmaco: provoca una reazione chimica nell’organismo. Dire che non ha alcun effetto collaterale non è corretto. Ma se il farmaco difende da Ebola, poliomielite o Covid e dà, magari, un raffreddore, direi proprio che l’effetto collaterale è sopportabile».

Ecco, ma a questo proposito ci sono precise strategie? Voglio dire: che calcoli fate nell’ipotetico caso di un vaccino non del tutto sicuro? Mettiamo, per esempio che ci sia lo 0,1% di probabilità di un effetto collaterale serio contro una mortalità del 3% per la malattia contro la quale ci si dovrebbe vaccinare: ci si ferma o si va avanti col vaccino?
«Questo è un tema da comitato etico, non è certo un industriale né tantomeno un politico che deve decidere su cose del genere. Se c’è un’evidenza che il vaccino provoca qualcosa di preoccupante, escludo che si possa accettare. Se non c’è questa evidenza statistica sui grandi numeri della sperimentazione di un candidato vaccino come il nostro, resta solo un pericolo lontanamente teorico. Che secondo me deve essere accettato».

Dottor Di Lorenzo, come ci si sente a lavorare a cose che possono avere un impatto così vasto sull’umanità? Quanto è gratificante?
«Le risponderò che è gratificante nel momento in cui, incrociando le dita, il candidato vaccino sarà validato. In questo momento posso solo dirle che è stressante da morire, perché la pressione psicologica è pazzesca. Ogni dipendente della Irbm è conscio dell’importanza enorme del risultato che stiamo perseguendo. Oggettivamente, c’è orgoglio e soddisfazione di far parte di una partita globale che riguarda la salute pubblica ma anche la geopolitica. Ma di gratificazione potrò parlare solo a risultato ottenuto. Intanto, le consiglio di fare molta attenzione: questo virus è cattivo».

Foto: a sinistra, la sede di Irbm Spa a Pomezia (Roma); a destra, l’amministratore delegato Piero Di Lorenzo.