L’arbitro di Wrestling Jhonny Puttini, 32 anni di Bovolone è uno dei pochi al mondo a poter dire di aver lavorato in ben 4 continenti per quanto riguarda questa disciplina.

Qualche giorno fà in Australia è stato chiamato ad arbitrare 4 incontri per la New Japan Pro Wrestling, una delle realtà più famose al mondo per la quale hanno lavorato nomi come Antonio Inoki, André the Giant ed Hulk Hogan con il quale un anno fa l’arbitro bovolonese aveva cantato “volare” in un locale della Florida

«Sono state settimane molto impegnative. – racconta Puttini – Sono stato in Giappone dove ho arbitrato un incontro e sono stato a cena con l’Uomo Tigre il quale mi ha poi nominato sul ring davanti ad un immensa platea ed avrei immaginato che quello sarebbe stato il mio momento dell’anno.
Salire sul ring con il logo della NJPW sulla divisa è stata un esperienza che racconterò per sempre con orgoglio frutto di tanti sacrifici ed impegno. Non capita tutti i giorni di venire chiamati a lavorare per una delle realtà sportive più importanti al mondo».

L’arbitro bovolonese Jhonny Puttini con il grande lottatore Tiger Mask , l’Uomo Tigre, a Tokyo

LA STORIA
Prima il cartone animato dell’Uomo Tigre, poi il mito di Hulk Hogan. Jhonny Puttini, 32 anni di Bovolone, ha preso tutto molto sul serio e così facendo, anno dopo anno, è riuscito a entrare in quel ring prima visto solo in televisione.

Questa è l’intervista di Jhonny Puttini rilasciata a Enrico Ferro del Mattino di Padova a fine gennaio 2023 prima di partire per l’Australia dove ha incontrato i migliori lottatori del mondo.

Jhonny Puttini, se il wrestling è finzione che senso ha l’arbitro?

«L’arbitro è un regista: vanno gestiti spazi pubblicitari e televisivi. Bisogna parlare con lottatori, avvisarli di non finire il match durante gli spot. L’arbitro deve anche comunicare con il backstage in caso di infortuni. È una specie di coordinatore».

Come ha fatto a diventarlo?

«Ho fatto dei corsi con un famoso arbitro austriaco. Venne a Pavia, c’erano persone da tutta Europa per seguirlo e, fortunatamente, c’ero anche io. Ho iniziato ad in Lombardia a novembre 2007. A volte facevo arbitro, altre montavo il ring, lo pulivo. È stata la mia gavetta».

Perché proprio il wrestling?

«Perché è uno spettacolo. I nostri atleti sono stuntman. Sono trapezisti, come quelli del circo. Il circo è un’arte. Il wrestling è uno spettacolo per tutta la famiglia. Porterebbe un bambino ad assistere a un incontro di Mma (mixed martial arts, la gabbia)? Io no. Invece vedere un gigante mascherato che si lancia dalla terza corda, penso sia bello ed emozionante. Noi siamo come un teatro messo in piedi da atleti: il wrestling non è finto, è semplicemente coreografato. Cattura grandi e piccini. I genitori e i figli, li vedi tutti uniti, credono in questa magia».

Il wrestling oggi è quello del film di Mickey Rourke o è quello di Hulk Hogan?

«È ancora quello di Mickey Rourcke ma noi puntiamo a farlo diventare come quello di Hulk Hogan. In America c’è chi porta a casa il pane con il wrestling, grazie alla Wwe, la World Wrestling Entertainment. Ora lo fanno vedere su Dmax, con il commento italiano. Ma lo mandano in onda alle 23.30».

Non si è un po’ spenta la moda?

«In America no, è ancora super seguito. Anche in Inghilterra ci sono molti appassionati. In Italia pensavo si fosse spenta ma dopo il lockdown il pubblico è tornato».

Lei come ha cominciato?

«È una passione nata guardando il wrestling in tv con mio padre, oppure le videocassette dell’Uomo Tigre. Poi a inizio 2000 c’è stato il boom mediatico con i commenti di Giacomo “Ciccio” Valenti.

In quel periodo in Italia c’erano molte palestre di wrestling. Vidi un’intervista a un lottatore che parlava di una palestra in provincia di Verona. Così mi misi a cercare e scoprii che era a 70 chilometri da casa mia, a Settimo di Pescantina. Mio padre mi portava, è grazie a lui se ho potuto mettere un piede in questo mondo».

Ma lei ha iniziato come arbitro o come lottatore?

«Come lottatore. Avevo 16 anni, è l’età consigliata. Io continuo ad allenarmi anche adesso ma non lotto».

Cosa dovrà fare, precisamente, in Australia?

«Dovrò stare un anno, vivrò a Sidney e sarò il primo italiano a fare wrestling in Australia, anche se in realtà negli anni ’50-’60 c’era Mario Milani di Trieste che qualcosa ha fatto. Comunque, per me è una responsabilità: è il terzo continente in cui vado a lavorare. Sono da poco tornato da un tour americano, ho arbitrato 8 eventi in 6 stati diversi».

Quanto si guadagna facendo l’arbitro?

«Diciamo che mi mantengo bene, lascio casa per questo. Vengo pagato per singoli spettacoli. Il mio sogno è che anche in Italia si riesca a far diventare questo sport un vero business».

Quanto guadagna un lottatore?

«Dipende da che lottatore e da dove lotta. In Italia ci sono Red Scorpion, Fabio Ferrari, Giuseppe Danza detto King, Trucker, Narciso. Vanno tutti all’estero. In Italia non ci campa nessuno».

Non crede sia uno spettacolo che diffonde la cultura della violenza?

«Assolutamente no. Il messaggio fondamentale del wrestling è quello di lottare con lealtà, perché le scorrettezze non pagano. Il cattivo magari a un certo punto prende il controllo ma il buono a un certo punto trionfa. È una metafora della vita. Momenti bui ne abbiamo tutti ma speriamo di poterci risollevare».

Questa, dunque, era la grande passione di suo padre?

«A 18 anni appena compiuti trovai mio padre morto per un malore: il wrestling mi ha aiutato a superare anche questo. Era una sua grande passione e mi dispiace che si sia perso me con Hulk Hogan.
Mi dispiace anche non essere riuscito a dirgli che sono salito sulla scalinata di Rocky, a Philadelphia, dopo aver arbitrato un incontro. Non so se riuscirò mai a entrare nell’olimpo del wrestling ma questo sport mi ha cambiato la vita e mi ha già fatto vivere esperienze incredibili».

«Qualche settimana fa, in aeroporto a Venezia, ho incrociato il presidente Luca Zaia. L’ho salutato, gli ho detto cosa faccio. Lui mi ha chiesto che fine avesse fatto Hulk Hogan e io gli ho detto che qualche giorno prima avevamo cantato “Volare” sul palco del ring a Tampa Bay. Mi sembrò non ci avesse creduto».

 

 

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