Legnago. La storia di Clarisse Bithum è un inno al coraggio delle donne che si trovano a dover ricominciare da zero, a lasciare gli affetti e la propria terra per trovare serenità con una veste nuova.

di Silvia Zanardi

L’amore per le sue radici e i ricordi di infanzia prendono forma e colore in piatti che uniscono la tradizione italiana e quella africana.
Se pensiamo alla nostra casa, che cosa ci viene in mente? Forse il luogo accogliente in cui possiamo essere noi stessi, fare quello che vogliamo, trovare conforto, condividere il tempo con le persone a cui vogliamo bene. Ma forse pensiamo anche alla nostra casa interiore, quella in cui ogni stanza porta a un ricordo, a un momento che si vorrebbe rivivere, agli spazi che occupano i sentimenti di cui non è sempre facile parlare.

Per chi è abituato a doversi separare spesso da affetti e abitudini, questo tipo di casa ha pareti più solide di quella fisica, è una fortezza inespugnabile e può raggiungere qualsiasi destinazione, perché il suo indirizzo è dentro il cuore.

Clarisse Bithum, 33 anni, apre le porte della sua casa interiore quando in italiano perfetto, ingentilito dall’accento francese, racconta il lungo e faticoso percorso che dalla Repubblica democratica del Congo, il suo paese di origine, l’ha portata a Legnago, in provincia di Verona, accanto a suo marito Eddy Zamperlin, legnaghese con anni di esperienza nella cooperazione in Africa.

Lo fa mentre prepara il “Ricordo d’infanzia”, un dolce di sua creazione che ha come ingrediente principale il mais, tanto caro alla tradizione congolese quanto a quella della Pianura Padana.

«Quando ero bambina, durante il periodo delle vacanze, i miei genitori compravano il mais appena raccolto dai contadini. Io, i miei fratelli e gli altri bambini ci mettevamo lungo la strada, a gruppi di due o tre, a pulirlo e a preparare pannocchie lesse o arrostite da vendere ai passanti”, spiega.

Vissuti, ricordi di infanzia e piatti “fusion” nel primo libro di ricette e racconti

Nell’intenso racconto che porta Clarisse Bithum a spiegare come, con la creatività e la passione per la cucina, è riuscita a trasformare la separazione dalle sue radici in unione dolce e sincera fra la tradizione africana e italiana, c’è la sua vita. L’infanzia a Kisangani, la città del Congo in cui è nata e cresciuta, la paura per la prima guerra che ha vissuto a soli dieci anni e per quelle che sono arrivate in seguito, con tanti momenti di tensione in un Paese che non conosce la pace.

C’è l’insolito e rocambolesco viaggio che, da Kisangani, ha fatto a bordo di un aereo militare pieno di donne, bambini, polli e capre, per arrivare prima a Bunia e poi proseguire – nascosta in un camion merci e attraversando una strada battuta dai ribelli (la stessa in cui è stato ucciso l’ambasciatore italiano Luca Attanasio) – verso Goma, la città in cui si è laureata in Gestione dello sviluppo, una branca della facoltà di Economia.
Una laurea che in Italia non ha trovato riscontro né applicazione e che ha portato Clarisse a prendere il diploma di licenza media e poi quello di scuola alberghiera.

Con emozione, componendo il piatto, parla spesso della dolcezza di sua mamma, una donna forte e coraggiosa che ha cresciuto sette figli da sola dividendosi fra il lavoro e la gestione domestica. Parla anche del dolore per non essere riuscita a salutarla prima della sua prematura scomparsa.

Nel suo racconto, però, c’è soprattutto la cucina, intesa non come luogo fisico, ma come uno spazio senza coordinate geografiche né temporali, in cui riesce a sentirsi sempre a “casa”, dando sapore e consistenza a sentimenti e ricordi.

«Cucinando ho fatto il lutto della mia vita precedente e ho dato il benvenuto alla mia nuova vita», racconta.
E lo si capisce bene sfogliando le pagine del suo primo e-book “Cuisine et Culture – Storie e vissuti attraverso la cucina” dove Clarisse accompagna la descrizione delle sue ricette “fusion”, ispirate alla cultura culinaria congolese e contaminate da quella italiana, con video e pagine di diario in cui porta il lettore nella sua vita e quotidianità in Congo.

Entrando nel suo mondo, si scopre come preparare il “Mini veg burger” a base di banana platano, un “must” del mercato rionale di Kisangani e uno snack che la mamma di Clarisse le preparava spesso di pomeriggio. C’è anche il “Risotto delle virtù”, ispirato al famoso detto africano “Non puoi litigare con l’albero che possiede tante virtù”, come quello della moringa oleifera, una pianta che secondo alcuni studiosi potrebbe contribuire a risolvere il problema della malnutrizione diffuso nei paesi in via di sviluppo. Il risotto delle virtù di Clarisse unisce la polvere di foglie di moringa al “Monte veronese”, formaggio tipico di Verona. Il matrimonio fra sapori è tutto da scoprire.

Oggi Clarisse porta la sua esperienza e la sua infinita voglia di imparare al ristorante “Ai due Santi” in quel di San Vito di Legnago ( l’altro santo è San Tommaso), dove lavora come commis de cuisine al fianco del noto chef legnaghese Mida Muzzolon.

In parallelo ricopre il ruolo di segretaria per l’Associazione cuochi veronesi, e a partire dal mese di aprile frequenterà il Corso di tecniche di pasticceria all’ALMA, la famosa scuola internazionale di cucina italiana.

«Voglio specializzarmi nella pasticceria, perché dà tantissime possibilità di sperimentazione e offre spazio alla creatività», dice Clarisse – «Chimica, precisione, arte e inventiva hanno lo stesso peso e insieme si concretizzano in dolci che rendono più belle le giornate di chi li assapora».

L’incontro con Eddy in banca, a Goma, e l’inizio della loro vita insieme

Clarisse e Eddy si sono conosciuti a Goma, nel periodo in cui Clarisse lavorava in banca per la “pratica” lavorativa fra la laurea triennale e quella magistrale. Eddy lavorava come cooperante per la ong AIBI- Amici dei bambini e Clarisse si occupava proprio delle pratiche bancarie per le ong. Fra un complimento e una battuta, Eddy un giorno è riuscito a convincerla a uscire con lui.

«All’inizio ci incontravamo sempre fuori, lontano da casa, perché temevo la reazione dei miei vicini. Non sta bene, dalle mie parti, che una donna nera frequenti un uomo bianco, mi avrebbero criticata con parole pesanti», racconta Clarisse.

Ma il loro amore è cresciuto ogni giorno di più e la loro relazione è andata avanti oltre ogni pregiudizio. Si sono sposati in Burundi nell’agosto del 2015, dove hanno vissuto per il tempo della missione di Eddy nella capitale, Bujumbura, finché un’altra guerra non li ha costretti a scappare e a mettersi in salvo in Italia.

In Italia Clarisse ha ricominciato da zero, con le medie, l’alberghiera, la patente e i fornelli, al fianco della “mamma italiana”

Clarisse e Eddy sono arrivati in Italia a dicembre del 2015. Sono atterrati all’aeroporto di Venezia in un freddo pomeriggio di nebbia, con ancora addosso i vestiti estivi. Un’amica veneziana li ha accolti all’aeroporto con vestiti caldi e li ha ospitati nella sua casa per qualche giorno. Clarisse ha trascorso quasi due giorni da sola in camera da letto, nascosta sotto le coperte, senza dire una parola.

«Prima di quel giorno – racconta – non avevo mai sentito il freddo, non sapevo cosa fosse la nebbia. Mi sono trovata qui, in questa città incredibile, che avevo visto solo qualche volta in televisione, e non mi capacitavo di come potessi tranquillamente girare per la strada e fermarmi ad ammirare tanta bellezza senza avere paura, senza avere fretta di tornare a casa per il coprifuoco», continua. «Ho fatto molta fatica ad abituarmi a questa pace».

Una pace che in questi giorni bui della nostra storia, con le immagini del conflitto fra Russia e Ucraina che invadono e riempiono di paura e pietà i nostri occhi e il nostro cuore, sentiamo in modo più forte.

«Pensavo che queste cose oggi non potessero accadere in Europa – dice Clarisse – Sono tornata ai ricordi della prima guerra che ho vissuto in Congo, quando avevo dieci anni. I bambini non dovrebbero mai conoscere il significato di questo orrore».

Al suo arrivo in Italia, Clarisse ha ricominciato da capo con grande coraggio, mettendo da parte la malinconia e lo sconforto per riconoscere nell’impegno, nella cultura e nella voglia di rimettersi in gioco un appiglio per ricominciare.

La sua laurea, nel nostro Paese, non ha trovato valore. Clarisse, per riuscire a trovare un lavoro è andata a scuola di italiano, si è iscritta alle medie serali, ha preso la patente e si è diplomata in scuola alberghiera, specializzandosi in eno-gastronomia.

Il senso di “famiglia” al fianco della “mamma italiana”

La nuova vita di Clarisse in Italia, è iniziata dunque tra pentole e fornelli, e grande merito per questo nuovo inizio va anche a Venerina, la mamma di Eddy, che Clarisse non chiama mai “suocera”, ma solo “mamma italiana”.

Studiando l’italiano e tutte le materie per conseguire gli esami, Clarisse ha imparato con Venerina a fare la “pearà”, salsa tipica della cucina veronese, a preparare il pasticcio con la besciamella e il ragù, i tortellini e le lasagne.

«È stata lei a farmi conoscere bene la cucina veneta e italiana» – racconta Clarisse. “Quando sono arrivata a Legnago, dopo una vita in Africa, mi sentivo persa e spaesata. Non sapevo più chi fossi e cosa dovessi, o potessi, fare. Il clima era diverso, prima di arrivare qui non sapevo cosa fosse l’inverno. In Africa c’è tanta povertà, la vita è difficile, ma splende sempre il sole».

Appena arrivata a Legnago, per qualche mese, Clarisse è rimasta da sola con Venerina perché Eddy era stato mandato in Benin per una nuova missione da cooperante.
Venerina parlava a Clarisse in dialetto. Entrambe si aiutavano con i vocabolari di italiano e francese quando qualcosa non era chiaro. E così, con la nebbia tipica dell’inverno legnaghese oltre le finestre, e il profumo di sugo di pomodoro e di carne lessa in cucina, Clarisse ha iniziato a intravedere un nuovo futuro, a vedere nella separazione dalle sue origini la possibilità di un’unione creativa, e saporita, fra la sua cultura e quella italiana.

«Stare in cucina mi ha fatto sentire di nuovo a casa, mi ha riportato ai ricordi belli di quando cucinavo con mia mamma e con i miei fratelli in Africa» – racconta. «Gli ingredienti, i profumi, i sapori sono molto diversi da quelli del mio paese, ma il senso di casa e di famiglia che può dare il ‘far da mangiare’ è unico e universale».

La fatica di dover sfidare i pregiudizi

«All’inizio, quando sono arrivata in Italia, non è stato facile. Prima di uscire di casa, facevo un grande lavoro di preparazione psicologica per affrontare il mondo esterno, per gestire i classici stereotipi e pregiudizi che le persone hanno sugli africani», racconta Clarisse. «Nel tempo, ho imparato a gestire questa condizione in maniera non troppo opprimente e spesso, una volta capiti i meccanismi che portano ad alcune reazioni nelle persone, prendo la cosa con leggerezza e sorrido».

A Clarisse è successo di entrare in luoghi pubblici (come lo studio di un medico, un ufficio, un ospedale,…), salutare e non avere alcuna risposta. Le è capitato di passeggiare al parco e sentirsi dare della prostituta da alcuni uomini, oppure di notare diffidenza in persone che al suo passaggio mettono le borse al sicuro per paura che Clarisse possa derubarle.

Lei e Eddy hanno fatto fatica a trovare casa perché i proprietari spesso rifiutavano dicendo «Non affittiamo agli stranieri. In tutte queste situazioni – dice – ho imparato nel tempo, ad avere un atteggiamento positivo e a resistere alle provocazioni. Ho sviluppato la mia capacità di avere pazienza, a relativizzare ogni situazione rispetto alla realtà che sto vivendo, a ridere delle situazioni più tragiche» dice.

Clarisse ha imparato a lottare contro ogni forma di ignoranza sviluppando la sua capacità di conoscenza e osservazione delle situazioni e delle persone, e lavorando molto sulla fiducia in se stessa.
Una fiducia che l’ha portata a costruire una nuova professione, a trovare una nuova passione e a crederci fino in fondo. A studiare, a imparare una nuova lingua, ad adattarsi, a convivere con la malinconia. A scrivere un libro, a iscriversi a una scuola di alta formazione, a condividere le sue esperienze.

A sognare un futuro tutto suo, pieno di “ieri”, “oggi” e “domani”, che non vediamo l’ora di assaporare e vivere con i suoi piatti.

A tutte le donne di coraggio, che, come Clarisse, credono in se stesse, dedichiamo questo articolo e questa storia.