È morto un lunedì di aprile del 2018, il 9, nel convento dei frati cappuccini di San Francesco a Conegliano di Treviso, fra’ Pacifico Scardoni, nato 83 anni prima a Roverè Veronese, nell’altopiano della Lessinia, da Domenico e Santa Tezza.
Luigi, come si chiamava da bambino, era il maggiore di quattro figli. Di umili origini contadine, aveva chiesto di entrare tra i francescani di Lendinara nella provincia di Rovigo a 28 anni, cominciando l’attività di frate questuante a Thiene, nel vicentino, per un anno poi a Lendinara dove rimase 33 anni fino al momento del ricovero nell’infermeria due anni prima della morte, dopo essere stato anche ad Asolo nel trevigiano e Udine.

Restò sempre semplice religioso, senza mai aspirare a studi o ad altri incarichi, facendo del suo lavoro di questuante una missione, soprattutto nel centro polesano che lo adottò conferendogli nel 2016, con voto unanime in Consiglio, la cittadinanza onoraria per essere «illuminato esempio, nelle parole e nel comportamento, di carità, sensibilità e straordinario dinamismo, riferimento di spiritualità e di solidarietà».
Fu frate innamorato della sua vocazione portatore del Vangelo e dello spirito francescano di casa in casa, dove entrava con il saluto di «Pace e bene» e usciva con la carità lasciando in cambio conforto, convinto che è più importante dare che ricevere.
I confratelli lo ricordano anche come «Giullare di Dio», perché si dilettava a comporre canzoni, in cui narrava la gioia della vocazione e della vita cappuccina. Davvero contento di servire Dio e i fratelli, in letizia, fu autentico frate minore sull’esempio di Francesco d’Assisi.
A Roverè lo ricordano che tornava ogni estate ad aiutare il fratello nel lavoro dei campi: si alzava presto, partecipava alla messa e poi era sui prati a rastrellare il fieno sotto il sole cocente e con il suo saio sempre addosso.

«Mia madre gli chiedeva di mettersi in abiti civili per soffrire meno il caldo, ma non ha mai abbandonato il saio» – ricordava la nipote Valeria – «Anche d’inverno veniva con i suoi sandali e a piedi nudi a trovarci, magari camminando nella neve. Erano inutili le proteste perché si facesse riguardo della sua salute. Quel poco che riceveva dai familiari era per chi era più povero di lui. L’ultima volta era venuto a ottobre, per lasciare il suo testamento spirituale in mano alle sorelle e al parroco, dicendo: «Sono sereno. Pronto ad andare incontro al Signore perché ho fatto quello che mi ha chiesto».

Amava tantissimo i bambini e non si presentava mai a mani vuote da loro, una caramella usciva sempre dal suo saio e la sua gioia era vedere il loro sorriso», aggiunge Valeria che racconta la semplicità della sua cella: un crocefisso, una foto della famiglia, delle lettere e dei foglietti con poesie che gli amici gli avevano dedicato.

Probabilmente molti di quelli che lo hanno conosciuto non sapevano nemmeno il suo cognome ma per tutti bastava dire frà Pacifico per ricordare il frate dal volto incorniciato da una lunga barba bianca, avvolto nel saio con la sua corporatura minuta che si presentava all’uscio di casa pronunciando il suo «Pace e bene».
Negli ultimi anni la malattia purtroppo lo aveva colpito impedendogli di proseguire la sua attività ma in tanti ancora oggi nella Bassa Veronese chiedono ancora di lui, frà Pacifico è rimasto sempre nel cuore delle persone.

 

Foto: le immagini sono di Orazio Ferdin pubblicate su Fb . Testi parziali di V.Z. su L’Arena.