«Se si cerca “Franchini M.” su Pubmed, la banca dati del ministero della Salute statunitense consultata da scienziati e ricercatori di tutto il mondo, escono la bellezza di 1.087 citazioni, un record, “ma solo perché c’è un astrofisico mio omonimo”, si schermisce il dottor Massimo Franchini, 53 anni, veronese originario di Legnago, direttore del Dipartimento di medicina trasfusionale ed ematologia dell’ospedale Carlo Poma di Mantova e docente a contratto per la laurea in Scienze ostetriche nella locale sezione staccata della Statale di Milano» – inizia così l’intervista di Stefano Lorenzetto, scrittore, giornalista del Corriere della Sera e de L’Arena, allo scopritore del plasma iperimmune per la cura del Covid-19, raccontata sulle colonne del quotidiano veronese.

«Il che sarà anche vero, – continua Lorenzetto nell’intervista che riportiamo per intero – ma non tiene conto del fatto che la stragrande maggioranza dei risultati riguarda solo lui e che il pioniere della chirurgia Pietro Valdoni, forse il medico più famoso nella storia d’Italia, su Pubmed ne totalizza appena 64.
Adesso lo schivo Franchini dovrà abituarsi a gestire una popolarità inaspettata: è lui ad aver sperimentato, insieme con i colleghi del Policlinico San Matteo di Pavia, l’unica cura efficace contro il coronavirus. Anzi, l’unico farmaco biologico a disposizione, utilizzato per la prima volta in Italia e subito esportato, sotto forma di protocollo, in 29 Paesi dell’Unione europea e poi nel resto del mondo.È una medicina assai speciale. Non la produce Big Pharma, ma lo stesso dottor Franchini, e non ha niente a che vedere con i vaccini, ancora di là da venire.

Si chiama plasma iperimmune da paziente convalescente. Si ricava dal sangue di chi ha contratto il Covid-19 ed è sopravvissuto. Parafrasando Tertulliano, si potrebbe dire che così come il sangue dei martiri è il seme della Chiesa, quello dei malati è il seme della vita.
I risultati della sperimentazione sono vistosi: la cura praticata dal medico veronese salva un paziente su 11. Se fosse stata applicata su vasta scala, invece dei 34.223 decessi registrati in Italia (statistica aggiornata a venerdì scorso) ne avremmo contati 3.111 in meno.
Franchini ha vissuto fino all’età di 37 anni a Legnago, dove ha frequentato il liceo classico Cotta. Non ne è uscito a pieni voti (57/60), ma in quell’esame di maturità, di certo più severo allora rispetto a oggi, nessun altro studente seppe fare meglio di lui.
In seguito, si è ampiamente riscattato: laurea in Medicina con 110/110 e lode nel 1991 all’Università di Verona; diploma di specializzazione in Ematologia con 50/50 e lode. Nella prima ebbe come relatore Roberto Corrocher; nella seconda Giuseppe Todeschini, «due maestri, anche se l’impronta indelebile nella mia vita la lasciò Giuseppe Perona, primario di Ematologia, del quale ancor oggi ricordo le lezioni».

Talento precocissimo, collaboratore di una trentina di riviste scientifiche internazionali, a 41 anni era già primario dell’ospedale Maggiore di Parma, dov’è rimasto dal 2008 al 2011.Dal 2004, anno del suo matrimonio con Francesca Dell’Aringa, funzionaria dell’Asl 9 Scaligera conosciuta attraverso Francesca Presti, un’amica ginecologa, Franchini ha sempre abitato a Verona, nel quartiere di Ponte Crencano.
La coppia ha due figli, Filippo, 13 anni, e Sara, che ne compirà 11 il 26 giugno. Ogni giorno il medico fa il pendolare da e per l’ospedale Carlo Poma di Mantova, pur avendo quello di Borgo Trento a 5 minuti a piedi da casa.

Il legame con Legnago è rimasto fortissimo: persi i genitori Gianni e Lucia, lì vive ancora l’unica sorella, Cinzia, docente al liceo Cotta, e il nipote Michele, studente universitario.
«Mi ha fatto particolarmente piacere una telefonata di Graziano Lorenzetti, sindaco della mia città natale, che voleva congratularsi per la cura anti Covid-19».

Su quale argomento verteva la sua tesi di laurea?

I radicali liberi, sostanze tossiche derivate dall’ossigeno. Si accumulano nell’organismo e intervengono nei processi degenerativi dell’invecchiamento.

Dovrei smettere di respirare?

Si possono ostacolare con vitamine e farmaci.
Ma il fenomeno è irreversibile. C’entra anche l’inquinamento.

E la tesi di specializzazione?

Descriveva 127 episodi consecutivi di setticemia da Pseudomonas aeruginosa, un batterio ubiquitario, osservati al Policlinico di Verona in pazienti oncoematologici affetti da neutropenia, cioè una diminuzione dei leucociti neutrofili nel sangue.

Perché ha fatto il medico?

Mio padre aveva una fiorente agenzia assicurativa dell’Italica, oggi Ras. Per raccogliere polizze, gli bastava sedersi al Caffè Paglia di Legnago nei giorni di mercato. Pensavo di doverla rilevare io, quindi gli comunicai che mi sarei laureato in Legge o in Economia e commercio. Lui mi dissuase: «Massimo, è meglio se scegli Medicina». Fu previdente, perché con la crisi del 1990 saltarono tutti i mobilifici della Bassa e restò senza clienti. Lo ringrazio ogni giorno: questo è il mestiere più bello del mondo.

Per quale motivo decise di occuparsi proprio del sangue?

Per caso. Dopo la laurea, dovevo iscrivermi a una scuola di specializzazione. Quella di Medicina era richiestissima. Per sicurezza, scelsi come paracadute anche Ematologia. Perona mi ricevette nel suo studio. Non lo lasciai più. Fu lui che mi mandò a lavorare dal suo collega Giuseppe Aprili, presso il Servizio trasfusionale, dove diventai responsabile della banca regionale dei tessuti dell’Azienda ospedaliera.

Che cosa fa questa banca?

Preleva ossa e tessuti da donatori viventi o da cadaveri. Per esempio, la cute serve per operare i grandi ustionati; la testa del femore, scartata quando s’impianta l’anca artificiale, si utilizza negli interventi odontoiatrici o della colonna vertebrale; tendini e legamenti consentono di riparare quelli strappati degli atleti.

Mi parli del plasma.

È un emocomponente, privo di cellule e ricco di proteine, fra cui gli anticorpi. È la parte liquida del sangue, di un colore che viene chiamato appunto giallo plasma. Si può separare da globuli rossi, globuli bianchi e piastrine. Mediamente un litro di sangue ne contiene mezzo di plasma. I pazienti guariti dal Covid-19 hanno in esso alte concentrazioni di Igg neutralizzanti, gli anticorpi che offrono un’immunità permanente e ci difendono anche nel caso in cui tornassimo a contatto con il virus. Gli stessi che si usano per i vaccini.

Come ha scoperto che il plasma poteva diventare un farmaco contro la pandemia?

A metà febbraio, quando cominciarono a manifestarsi in Italia i primi contagi, Fabio Pajola, direttore di presidio del Poma, mi mostrò un editoriale di Lancet, la Bibbia dei camici bianchi, sul plasma convalescente. Mi si aprì un mondo. E ci chiedemmo: perché non utilizzarlo nei casi di Covid-19?

Un azzardo.

Tutt’altro. Sono 120 anni che si fa ricorso a questa metodica. Emil Adolf von Behring, primo premio Nobel per la medicina nel 1901, la sperimentò contro la difterite e il tetano. In seguito trovò applicazione per la tubercolosi, il botulismo, la pertosse, il veleno delle vipere. Il plasma dei guariti fu usato in epidemie e pandemie di spagnola, Sars, Mers, Ebola, morbillo, epatite B, influenze aviarie e suine.

E allora perché non impiegarlo anche contro la leucemia, ricavandolo dal sangue di chi ha sconfitto questa neoplasia?

Gli anticorpi possono guarirci dalle infezioni virali. Si sa che contro i virus gli antibiotici non servono a nulla. Ma la sua domanda non è sbagliata: la lettura scientifica abbonda di studi sull’origine virale di alcune malattie oncologiche.

Quando ha cominciato a usare il plasma iperimmune?

Il 21 febbraio scoppia l’epidemia. Mantova viene risparmiata, ma comincia a ricoverare malati provenienti da Codogno, Cremona e Piacenza. Siccome sono consulente del Centro nazionale sangue del ministero della Salute, telefono a Giancarlo Liumbruno, che ne è il direttore, il quale mi dice: «Ma lo sai che Cesare Perotti del San Matteo di Pavia ha avuto la tua stessa intuizione? Chiamalo». L’ho fatto. Siamo diventati subito amici. E così è nato il protocollo di cura, il primo in assoluto nel mondo occidentale. Non perché siamo i più bravi, ma perché il coronavirus, dopo la Cina, ha attaccato l’Italia. Una triste primogenitura.

Però lei non aveva ancora i guariti dai quali prelevare il plasma iperimmune.

Le sacche ci sono arrivate da Pavia, colpita dal Covid-19 prima di Mantova. Il protocollo è stato messo a punto e brevettato in soli 15 giorni. È una procedura che di solito richiederebbe dai 3 ai 6 mesi di lavoro.

Brevettato? Ve lo fate pagare?

Ci mancherebbe altro! Lo abbiamo subito messo a disposizione gratuitamente su Clinicaltrials.gov, il database degli studi clinici finanziati con fondi pubblici e privati nel mondo intero. La sperimentazione è durata dal 1° aprile al 1° maggio. Su 46 pazienti ricoverati a Mantova e Pavia, ai quali abbiamo trasfuso il plasma iperimmune, da una mortalità attesa del 15 per cento si è scesi al 6. Quindi una riduzione dei decessi pari al 9 per cento.

Non funziona su tutti?

È efficacissimo nell’abbattere la carica virale. Ma poi tutto dipende dalle condizioni cliniche del singolo soggetto. Purtroppo il coronavirus innesca risposte infiammatorie e della coagulazione. Si muore per quelle. È una malattia sistemica, non solo polmonare, che provoca trombosi in tutto l’organismo. Quindi la cura funziona sui pazienti nei quali l’infezione da Covid-19 sia insorta di recente, trattati al massimo entro 10 giorni, e non ancora intubati.

In quanto tempo agisce?

In poche ore, o comunque entro due giorni, azzera la carica virale. Addirittura negli Stati Uniti hanno adottato il nostro protocollo come profilassi preventiva.

Lei vi si sottoporrebbe? Da sano?

Se lavorassi al pronto soccorso o in pneumologia, reparti a rischio, senz’altro.Avete scorte a sufficienza?Eseguiamo 6-7 plasmaferesi al giorno. Il separatore cellulare ricava dal sangue intero 600 millilitri di plasma e ne reimmette in circolo altrettanti di soluzione fisiologica e globuli rossi, quindi i donatori non perdono neanche una goccia di sangue. Con questi 600 millilitri si curano due pazienti. Basta una dose unica per ciascuno. Abbiamo scorte per 100 malati, vogliamo arrivare a 200. Si conservano integre per due anni. I donatori possono prestarsi alla plasmaferesi ogni mese. Ma dobbiamo controllare che il titolo anticorpale sia sufficiente, perché più passa il tempo dal superamento dell’infezione da Covid-19 e più nei volontari guariti gli anticorpi neutralizzanti tendono a calare.

Non ha temuto che il plasma iperimmune potesse infettare ancora di più i pazienti?

Domanda interessante. No, perché, anche se non vi erano studi in proposito, sapevo che era stato sottoposto a uno screening rigoroso per eventuali agenti infettivi nonché a un processo di inattivazione dei medesimi mediante raggi ultravioletti, che distruggono tutti i virus, Covid-19 incluso. Oggi abbiamo la certezza che il coronavirus non si trasmette con il sangue.

Ma come agisce il plasma iperimmune da convalescente?

Gli anticorpi si legano direttamente con il virus in un punto particolare, quello che esso utilizza per entrare nelle cellule, una specie di chiave che s’inserisce nella serratura. L’anticorpo avvolge la chiave e la rende inutilizzabile, per cui il Covid-19 non riesce più a penetrare la cellula.

È una cura costosa?

Non direi. La donazione è gratuita. Le uniche spese sono per la validazione e le sacche: 172 euro per ogni plasmaferesi, più 60 euro per inattivare eventuali virus con i raggi Uv, quindi 232 euro ogni 600 millilitri di plasma. Fanno 116 euro una tantum a paziente.

Come ha vissuto la pandemia?

Sono stato colto di sorpresa. Avevo sottovalutato le notizie provenienti dalla Cina. Ormai eravamo abituati alla medicina di precisione e qui ci siamo trovati alle prese con una roulette russa. L’unica arma efficace era ed è l’isolamento. Per paura di contagiare i miei, ho dovuto traslocare in un appartamento attiguo che avevo acquistato con un mutuo. Per tre mesi il peso della famiglia è ricaduto interamente sulle spalle di mia moglie.

Teme che il mancato distanziamento farà riesplodere il Covid-19?

Temo l’autunno-inverno. Mi stanno chiamando da Arequipa, in Perù, dove ora fa freddo. Là sono in una situazione drammatica. È un virus influenzale. Dobbiamo sperare di sfangare il prossimo inverno, in attesa che arrivi il vaccino in quello del 2021-2022.

Non avrà donatori guariti a sufficienza da cui ricavare il plasma.

Già ora su 100 pazienti non più di 30 sono idonei alla plasmaferesi, o per l’età, o per altre patologie, o per i titoli anticorpali insufficienti.

Perché sulla stampa si è parlato solo di Giuseppe De Donno, primario di Pneumologia dell’ospedale dove lei lavora?

Perché è più simpatico, penso. Scherzi a parte, siamo amicissimi, lo stimo molto. All’inizio i colleghi hanno accolto questa cura con molto scetticismo, sembrava obsoleta. De Donno no, non si è mai arreso. Dopo averla sperimentata sul primo paziente, mi telefonò tripudiante dall’ospedale mentre stavo per coricarmi: «Funziona! Funziona! Gli ho appena tolto il respiratore». È grazie a lui se hanno parlato di questa cura. Per settimane ho reclutato i guariti usando il vivavoce in auto nel tragitto Verona-Mantova e ritorno.

Però Selvaggia Lucarelli sul Fatto Quotidiano ha ridicolizzato De Donno con un’intervista che è stata presentata come «surreale».

Una grave scorrettezza. Ha insinuato che i nostri dati fossero falsificati. E per far perdere le staffe al mio collega, ha violato la privacy di Pamela, una paziente in gravidanza salvata dal plasma iperimmune.

Avrà agito così perché Matteo Salvini ha lodato la vostra cura?

La Lombardia è governata dal centrodestra, quindi screditarla mi pare che sia diventato uno sport nazionale. Eppure si è schierato dalla nostra parte anche il sindaco di Mantova, Mattia Palazzi, che è del Pd. Devo ringraziare Raffaello Stradoni, direttore generale del Poma, veronese e medico come me, da cui ho avuto carta bianca. Resta il fatto che il plasma iperimmune elimina la carica virale nel 90 per cento dei pazienti trattati.

I testimoni di Geova rifiutano le trasfusioni.

Però sono molto bravi a prevenire le anemie con i farmaci. Mi capitò un solo caso grave, quando lavoravo a Verona: un emofiliaco arrivato da me con l’emoglobina ridotta a 2 grammi per decilitro di sangue anziché averla a 15. Non morì solo perché aveva 18 anni.

Ogni quanti mesi è bene sottoporsi alle analisi del sangue?

Ogni 12, per evitare le anemie, che stanno diventando un problema sociale. Il ferro ha un ruolo in tutte le reazioni chimiche dell’organismo. Nella donna un valore dell’emoglobina inferiore ai 12 grammi significa esporsi a cefalee, febbricole, disturbi digestivi e dell’umore, perdita di capelli, insonnia.

Farsi cattivo sangue è solo un luogo comune?

Nei detti popolari c’è sempre un fondo di verità. La rabbia e lo stress producono un aumento dei livelli di alcuni ormoni nel sangue, come il cortisolo, e ciò alla lunga può tradursi in ipertensione, arteriosclerosi, rischio cardiovascolare, caduta delle difese immunitarie.

Foto: a sinistra, il medico legnaghese Massimo Franchini; a destra l’intervista di Stefano Lorenzetto pubblicata su L’Arena.

Il Nuovo Giornale ringrazia il direttore de L’Arena Maurizio Cattaneo e il giornalista Stefano Lorenzetto per la liberatoria alla pubblicazione dell’articolo.