Uno stuolo di commenti sui social contro gli agenti di polizia chiamati ironicamente “gendarmi”, “pagliacci” o peggio ancora.
Per le auto posteggiate fuori dagli appositi spazi, un agente della polizia locale di Legnago che passa e le multa.
Quindi in perfetto stile terzo millenio, invece di rimuginare tra sé e sé la propria rabbia, ecco che l’accesso d’ira si sfoga sui social. In questo caso sul gruppo Facebook “Accade a Legnago…Civiltà e inciviltà legnaghese” amministrato da Rosario Messina.
Sul social uno dei multati ha esposto la fotografia della contravvenzione, dando quindi avvio ad una serie di commenti, alcuni di semplice disappunto con toni pacati, altri che sfociano invece nell’insulto, dileggio delle forze di polizia locale e delle istituzioni.
Ora, a differenza che in molti altri casi, la polizia locale rappresentata dal comandante Luigi De Ciuceis ha deciso di presentare formalmente una denuncia alla Procura di Verona per diffamazione ed oltraggio a pubblico ufficiale.
Se il PM autorizzerà il procedimento, la polizia postale potrà procedere ad identificare gli autori dei commenti inappropriati che a quel punto scatteranno le sanzioni. Forse.
Qualche settimana Caterina Malavenda sul Corriere a titolo “Certezza del processo per i leoni da tastiera” portava il caso degli insulti che la senatrice Liliana Segre aveva ricevuto via internet ripropone il problema dello sviluppo di una responsabile cultura del digitale.
«Luciano Violante, qualche giorno fa – scrive Malavenda, auspicando lo sviluppo di una responsabile cultura del digitale, ha scritto che nella rete oggi c’è libertà senza responsabilità. E un pubblico ministero, nel chiedere l’archiviazione di un procedimento per diffamazione a mezzo social, ha sostenuto che gli utenti di internet non danno alcun peso a quel che viene postato, termini scurrili o denigratori compresi, consapevoli che si tratta solo di un modo per sfogare rabbia e frustrazione senza alcun controllo.
Se il Gip accoglierà la richiesta, ritenendo non lesivo il post incriminato, ci sarà una nuova causa di non punibilità non codificata, l’imbecillità dell’indagato; e l’uso dei social, che per il codice penale è un’aggravante, diventerà ancor più libero e irresponsabile.
Poi, però, la politica d’improvviso si accorge dei numerosi insulti, che da tempo la senatrice Liliana Segre riceve via internet e, sull’onda dell’indignazione, il presidente del Consiglio dichiara di voler intraprendere una lotta senza quartiere, per contrastare il linguaggio dell’odio, che circola su quegli stessi social.
E così via a una nuova commissione parlamentare per il contrasto del razzismo, dell’intolleranza, dell’antisemitismo e per la lotta contro l’istigazione all’odio e alla violenza.
Un programma vasto, come disse De Gaulle a chi gli proponeva di lanciare una campagna per eliminare i cretini.
Qui non si tratta, però, solo di cretini, né di persone che suscitano pena o di malati bisognosi di cure, come la senatrice li ha definiti pubblicamente, sulla scorta della sua terribile esperienza personale, ma di un fenomeno da non sottovalutare. Colpisce, infatti, indiscriminatamente e solleva un’ondata così alta di improperi da intimidire e spesso annientare vittime deboli e indifese.
Se ben orchestrata, una campagna d’odio può persino dissuadere chi scrive per mestiere, resistendo a cause milionarie e a minacce fisiche, a esporsi con tesi impopolari o posizioni dissonanti dal pensiero dominante, fino a indurli a chiedersi se valga la pena affrontarla o se non sia meglio tacere. Una sottile forma subliminare di censura, che potrebbe negli anni a venire orientare l’informazione, eliminando su base volontaria, però, le notizie scomode e, dunque, manipolando il consenso.
Oggi, intanto, i messaggi contrastanti, che la cronaca offre ogni giorno, finiscono per ringalluzzire i leoni da tastiera, tanto che, sempre più spesso, rinunciano all’anonimato, la loro originaria caratteristica peculiare, perché ormai certi dell’impunità, incoraggiati dalle difficoltà per identificarli con certezza, da un certo lassismo nel perseguirli e, soprattutto, aiutati dalla enorme mole di processi che bloccherebbero i tribunali, se si applicasse rigidamente il codice penale.
Così la differenza finisce spesso per farla l’importanza o la visibilità della vittima, ma anche la mancanza di risorse umane e tecniche, la scarsa deterrenza delle sanzioni applicabili e la lunghezza dei processi, di tal che l’effetto non voluto è la sostanziale depenalizzazione di quelle condotte e l’eventuale incriminazione è come un terno al lotto.
Non di nuove norme c’è bisogno, dunque, ma di utilizzare meglio quelle vigenti perché, fatte sempre salve le opinioni, anche le più forti e dissacranti, spesso chi digita commette reati che vanno dalla diffamazione aggravata alla sostituzione di persona, dalle minacce alle molestie, dall’incitamento all’odio razziale allo stalking, almeno fino a che non verranno depenalizzati; ma la fa franca per mancanza di tempo, voglia, motivazione e risorse.
E fa piacere sapere che la Procura di Milano avrebbe avviato già da un anno un’indagine, ancora contro ignoti però, sulle minacce e le molestie alla senatrice Segre, ma quante sono le denunce per minacce e molestie via internet rimaste nei cassetti?
È necessaria, dunque, una maggiore certezza del diritto: ogni persona deve poter valutare e prevedere le conseguenze giuridiche della propria condotta; e se una norma, quale che sia, viene violata, deve essere applicata la pena prevista. Non sarà la panacea di tutti i mali, ma se passasse chiaro e forte il messaggio che chi delinque sarà identificato – e ben vengano, se attuabili, tutte le proposte per farlo – processato e, se colpevole, condannato, quei leoni da tastiera potrebbero smettere di battere sui loro tasti e la libertà sulla rete, un bene da proteggere a ogni costo, potrebbe non esser più sinonimo di impunità».
Foto: a sinistra un’immagine simbolica e puramente casuale; a destra in alto, un agente di polizia locale; in basso, la senatrice Liliana Segre.