A Bovolone, verso la metà degli anni ottanta, si andava esaurendo un periodo d’oro iniziato quasi 30 anni prima con la nascita di tante botteghe di falegnami che costruivano “mobili d’arte”.

Un sorprendente boom economico che trasformò in pochissimo tempo le strade e le abitudini della gente del posto, dalle campagne alle botteghe in tempi veloci, grazie alla intraprendente passione di alcuni artigiani. Si iniziò ad esportare all’estero, in Germania soprattutto. Arrivò all’improvviso una ricchezza inaspettata che spalancava orizzonti neanche troppo lontani.

Le botteghe più organizzate si erano talmente ingrandite che avevano costruito delle mostre espositive imponenti con decine di bandiere multicolori a sventolare sul tetto e colonne marmoree, uno stile architettonico vero e proprio definito dagli esperti “assiro-bovolonese”, qualcuno aveva addirittura riprodotto delle antiche pagode giapponesi per le rinomate mostre sulla statale.

Una crescita economica senza controllo. La leggenda narra che il più sborrone fra questi nuovi mobilieri si accendesse sigarette con biglietti da cinquantamila lire al bar davanti ad avventori poco invidiosi e distratti da interminabili partite a carte.

Questa fama di paese di contadini che diventano all’improvviso “marangoni” (sta per falegname nell’antico dialetto del posto, forse di origine spagnola) arrivò alla ribalta televisiva grazie ad una memorabile macchietta di Ugo Tognazzi nell’Altra Domenica di Renzo Arbore, “San Bobbolone”, un’improbabile santo falegname rincoglionito.

In quegli anni la famosa giornalista Camilla Cederna denunciò questa crescita spropositata di Bovolone e la ridicolizzò con un articolo feroce sull’Espresso che le costò un processo per diffamazione.

L’unica industria alternativa al mobile era il biscottificio che regalava dolci profumi nelle vie che gli giravano intorno. Chiamava i propri operai con una sirena che suonava precisa a ricordare i turni di lavoro, un campanile industriale francamente fastidioso.

 

LA CARTOLINA

In centro paese, circondato da un recinto quadrato, si imponeva il monumento ai caduti, una raffigurazione del Perseo dalla muscolatura bronzea, che tiene in mano la testa tagliata della Medusa. Un monumento raccapricciante, copiato.

Bovolone si è allungato e sviluppato attorno alla statale che allora collegava Verona a Legnago, un serpente lungo 5 chilometri di mostre di mobili che attraversava la piazza centrale e che tendeva ad allungarsi ancora.

Uno scavo archeologico aveva portato alla luce, in via Prato Castello, dei segnali di civiltà primitive che lì vivevano nelle palafitte su un acquitrino; una delle possibili origini del nome “il paese delle rane”, 26 metri sotto il livello del mare.

Due chiese attaccate sono la caratteristica della piazza centrale, di fianco il cancello con l’entrata nell’universo dell’organizzazione parrocchiale, due cinema, quello dei preti e l’Italia, da sempre con proiezioni a luci rosse e decine di bar ostarie, ristoranti con grandi sale per banchetti di tribù familiari numerose.

La biblioteca era ancora un pensiero riservato. Per pochi mesi, a metà anni settanta, funzionò una balera chiamata Le Chat Noir, finì incendiata insieme al sovrastante cinema Ariston nei giorni in cui si proiettava il Salò di Pier Paolo Pasolini.

Qualche bar in centro coi biliardi dove si animavano bische fumose e nient’altro.

La novità era la gelateria Zago con i tavoli messi giù come Arnold’s di Happy days.

D’estate l’aria paludosa bloccava il respiro e i pensieri si mettevano in pausa sostenuti da un’afa snervante ed appiccicosa. In autunno ed in inverno invece calava una nebbia massiccia, protettiva e le persone che circolavano in bici erano riflessi di movimenti sempre lenti, sembravano fantasmi.

Mi è sempre piaciuta molto quella nebbia. Mi ci nascondevo dentro.

   

LE TARGHE A.F.I.

Appena fuori paese, dietro una curva secca, sulla strada che porta a Oppeano e Isola Rizza, piccole torrette di guardia e un recinto di filo spinato erano le prime macchie di un tabellone di Risiko steso sulla campagna: un campo d’aviazione militare e due chilometri più avanti, un altro campo d’aviazione, questa volta americano. Piccole montagnette artificiali nascondevano forse testate nucleari o semplici rampe di lancio.

Nei primi anni settanta in paese cominciarono ad arrivare molti soldati americani che affollavano già dal primo pomeriggio la gelateria da Zago, l’unico posto dove funzionava un juke-box.

Questi soldati americani erano una novità, giravano con lunghe macchine targate A.F.I che finivano spesso in qualche fosso all’alba con gli occupanti addormentati. Che quando aprivano gli occhi, come dicevano le vecchie delle case vicine,” i t’è ponze quando i te guarda”. Le stesse vecchiette che fuori da messa la mattina li chiamavano “foresti”.

Questi ragazzi americani, erano freschi reduci dall’esperienza in Vietnam e utilizzavano la vicina base militare come centro di disintossicazione da oppiacei prima di tornare at home, terapie con metadone e naltraxone per curare coscienze ferite.

Qualcuno di loro si è sposato con qualche ragazza del paese (molte rimanevano facilmente incinte) ed ha imparato il dialetto della bassa pianura veronese. Si sono mescolati con successo alla gente del posto, affascinati e contagiati dal vizio della concina e del tresette, traditi solo da un accento inconfondibile di radice yankee nell’ordinare vino per tutti gli amici della compagnia.

 

L’ONDA SCURA

Fu in quel periodo che in paese arrivò l’onda scura. Il neonato export dei mobili avrebbe (in qualche caso isolato! La pecora nera c’è sempre!) potuto mascherare (e giustificare) un traffico clandestino, d’altronde è facile nascondere roba che nessuno cerca. Si tracciò una rotta commerciale con la Turchia e la Germania, piccole bande organizzate a bordo di potenti Kawasaki scorazzavano armate fra le varie balere delle vicinanze, nelle campagne vicino spuntarono ville faraoniche con maneggi e piscine e subito dietro vecchi depositi di attrezzi agricoli che nascondevano freezer pieni di eroina turca.

Non era così difficile prevedere allora che cominciassero a circolare tanti sacchetti pieni di eroina scura nelle tasche dei ragazzi curiosi della zona.

Cominciarono le processioni di comitive davanti ai giardini del Palazzo Vescovile lasciato a rovinare e vicino ai boschetti di fronte alle scuole medie; nei bagni dei bar, nei garage e nelle cantine, nascevano segrete confidenze con questa polvere marrone, a volte grigia ma dall’odore forte e preciso, che non ti puoi sbagliare mai.

Fare il tossico finì per essere per tanti ragazzi il mestiere meno duro che si potessero scegliere. Tanti andarono in pellegrinaggio ad Amsterdam, tornarono con storie eccitanti ma tornarono.

In piazza Erbe in città cominciarono a circolare le buste. Nel mio paese cominciarono invece a circolare i “sachetini da zinque tochi”, che duravano si e no un giorno per il tossico più parsimonioso del paese. Anime anestetizzate in anni confusi, ragazzini che scelsero di fare i fantasmi. Qualcuno viveva la sua storia tossica con fratelli di sangue, con nonne organizzate per rifornire di roba i propri “buteleti”, purchè stessero in casa e non uscissero fuori a rubare stereo o combinare guai.

La prima morte causata da questa nuova epidemia sconosciuta lanciò un allarme che in pochi udirono: il Manu morì con poco preavviso a causa di un’epatite fulminante. Aveva 15 anni. I suoi amici con gli occhi persi sopra l’altare in chiesa il giorno del suo funerale, più tardi ci sarebbero state le pere della “cerimonia privata”.

Nessuno si rese conto di ciò che stava per succedere. Una specie di contagio tossico stava infettando le anime ed i fegati di molti ragazzi, un virus potente e silenzioso si stava propagando in paese senza che nessuno se ne accorgesse. O se ne preoccupasse.

Questo breve estratto, tratto dall’anamnesi letteraria “Mi sono fatto da solo” del 2002 e mai pubblicato è di Leonardo Tarcisio Rebonato.

Più che un uomo di spettacolo si definisce uno spettacolo di uomo, Leonardo Rebonato, 55 anni, è un “lavoratore culturale” che organizza festival, concerti ed eventi di successo nel Veneto.

Nato e cresciuto a Bovolone, alla fine del 1990 si trasferisce a Verona dove, oltre al mondo dello spettacolo, coltiva la sua grande passione di dj radiofonico iniziata in giovane età con Radio Spazio a Legnago.

A Bovolone ha tutti i ricordi d’infanzia che lo attendono ogni volta che ritorna, spesso, a trovare la “regina madre” rimasta a custodirli.

Foto Zeno: a sinistra, Leonardo Tarcisio Rebonato; a destra in alto, una cartolina di Bovolone degli anni 80; in basso, un “marangon” al lavoro.